Il simbolo di Claudio Tonelli

IL SITO DI CLAUDIO TONELLI

Josef


Odiava la mattina.

Cercava di vivere la notte più intensamente che poteva perché aveva sempre la speranza che, prima o poi, la mattina non sarebbe più arrivata e avrebbe vissuto sempre nella notte.

Il giorno lo catapultava nella sofferenza, nei soprusi, nell’umiliazione, nell’ultimo piolo della scala degli umani.

Quindici anni di vita vissuta con il terrore accanto, un amico del quale avrebbe fatto volentieri a meno, ma che fino a quel momento gli aveva salvato la pelle. Il terrore lo obbligava a stare attento, lo costringeva ad una difesa ad oltranza per la sopravvivenza. Il terrore lo aveva fatto crescere in fretta, troppo in fretta. Aveva saltato quei passi fondamentali dell’adolescenza, della necessaria stupidità giovanile, delle gioie e della spensieratezza tipiche di una vita normale.

Josef  è nato in una città del Sudan nel bel mezzo della guerra civile e delle rivalità tra tribù, poveri contro poveri, per la conquista del nulla, per la supremazia sul niente. Crudeltà e atrocità quotidiane, che le televisioni di tutto il mondo divulgavano dopo uno spot pubblicitario con belle modelle sorridenti e corpi suadenti, e che rendevano, con accanimento, più acuto lo stridore della realtà di quelle persone che mangiavano una volta alla settimana e bevevano acqua putrida.

Aveva conosciuto il terrore già a cinque anni quando un gruppo di uomini uccisero suo padre davanti alla sua casa. I suoi grandi occhi scuri di bambino, increduli, rimanevano sbarrati e seguivano, come tanti fotogrammi, lo strazio del corpo torturato, udiva le grida, fino a quando la polvere non si alzò più, perché non c’era più nessuno che si dibatteva, perché era tutto finito, era tutto finito.

Sua madre, per proteggerlo, lo portò via da quella cittadina dove la legge era la violenza quotidiana e solo opponendo altra violenza si otteneva rispetto e timore. Cercò quei parenti in quella città chiamata speranza per una vita onorevole e dignitosa.

Ma quel nome non esisteva e i tentativi disperati di trovare pace a quelle pene, soprattutto per quel suo bimbo che non aveva colpa per quegli avvenimenti causati dell’efferatezza umana, caddero nel vuoto.

Alla sera, quando Josef dormiva, dopo aver cercato di saziare come poteva la sua creatura, la mamma si lasciava andare ad un pianto dirotto, dettato dalla rabbia, dall’odio per tutti coloro che permettevano tutto questo, dall’impossibilità di aiutare il suo bimbo e per la sua condanna alla sofferenza perpetua.

Un rancore vivo e maestoso contro l’indifferenza per la sofferenza umana, che non destava interesse perché non c’erano gli interessi, né le visioni economiche lucrative e né gli investimenti appetibili.

Un disprezzo che si ritorceva contro di lei, perché l’orrore stava prendendo il sopravvento e l’idea del suicidio abbozzava nella sua mente.

Ma una mattina questo suo pensiero sparì.

Lasciò Josef vicino ad una cascina e si avviò verso un pozzo d’acqua. Quattro uomini l’accerchiarono, le strapparono i vestiti, ma era troppo malata e troppo magra per essere violentata, così usarono il machete  e misero fine ai suoi problemi.

Josef , nascosto, vide tutto.

Le lacrime scendevano copiose, tremava per la paura, ma non poteva farsi sentire, e così pianse in silenzio. Non gli era permesso nemmeno di gridare il suo dolore.

Fu raccolto da qualcuno che conosceva la pietà, e alla quale dava la giusta considerazione, senza esagerare; la pietà nel Sudan era come la fame, la povertà, la morte, si doveva convivere ed accettarle per vivere, già, come nei paesi occidentali, dove i bambini condividono l’esistenza con i giochi, con l’obesità, con tre, quattro, cinque pasti al giorno e il mondo ai loro piedi.

Josef  crebbe senza che il mondo sapesse di lui, era come un pacco postale, portato da una tribù all’altra, scaricato e ripreso senza considerazione, un’altra bocca da sfamare.

Fu portato a Khartoum e fino a 14 anni visse nei tombini per la raccolta dell’acqua piovana e qualche volta dormiva nei cimiteri, perché la puzza, in alcuni punti, era più sopportabile.

Poi andò nei campi di Hillat Gelida e El Salaam  assieme ai suoi amici disperati, molti dei quali morirono di stenti e di Aids.

Alain, un italiano dal nome francese che sua madre gli diede perchè stravedeva per un attore compaesano di Napoleone, prestava il suo aiuto come volontario nei campi profughi. La sua voglia di aiutare era immensa, il sorriso era il suo biglietto da visita e una carezza il suo saluto. Da diversi anni si adoperava con fervore per donare un po’ di sollievo alle popolazioni tormentate da tutto e da tutti.

Una vita normale, quella di Alain, vissuta tra le mura domestiche di una città delle Marche ai confini con la Romagna. Studi regolari, ragazzo prodigio nello sport, con la possibilità di una carriera sportiva brillante. Cocco dei genitori e delle ragazze, era amico di tutti. Spensieratezza e allegria erano le sue fedeli amiche che portava sempre con sé.

Una sera fu invitato ad una cena a base di pesce in un ristorante, carino e posto in una posizione molto suggestiva, con un’ampia veduta del mare e una collina che dolcemente scendeva ad abbeverarsi nelle sue acque sinuose. Poi qualcuno propose l’idea di andare a vedere un filmato sull’Africa che un amico di un amico aveva realizzato.

Alain andò col gruppo, anche se il sonno, dopo la lauta cena, stava prendendo possesso di lui. Sbadigliando, di tanto in tanto, attese che le luci nella piccola e fumosa sala svanissero per vedere, con occhi pesanti, i soliti leoni, i soli elefanti e le solite gazzelle.

“Un popolo senza diritti” era il titolo. Una scritta rosso sangue, su uno sfondo nero. Seguì “Sudan” a caratteri cubitali, con lo stesso intenso colore e con la scritta che colava verso il basso, quasi fosse stata ferita da qualcosa. Il film amatoriale iniziò.

“Un territorio di oltre  2 milioni di kmq,  il più esteso paese dell'Africa. …….. una popolazione di oltre 28 milioni di abitanti ……… 56 gruppi etnici …… una guerra civile che dura dal 1955…… lo scontro alimenta un commercio internazionale di armi sempre crescente……. il regime rinchiude e tortura gli avversari politici ……… la tratta degli schiavi in Sudan migliaia tra donne e bambini delle regioni meridionali vengono catturati nei villaggi per essere venduti ……genocidio…… la distruzione dei villaggi, ……. il furto del bestiame, lo stupro in massa delle donne, la cattura dei bambini…….

Alain non aveva più sonno, il filmato scorreva lento ed inesorabile, con il suo carico di aperta disperazione; le melanconiche scene si susseguivano flemmaticamente e la mancanza di esperienza di chi girò il filmato, rese ancora più cupa l’aria nella sala.

Un’ora e un quarto di pura violenza psicologica.

Quando le luci ridiedero vita alle forme umane, Alain era un blocco di ghiaccio.

Non dormì per tutta la notte, non dormì neanche il giorno successivo. Si informò sul quel Paese tanto martoriato, volle conoscere tutti i particolari, era come impazzito, e si sarebbe fermato solo se avesse saziato la sua fame di sapere.

Quel giorno venne.

Andò dai genitori con uno zaino, diede loro un bacio e disse: “Oggi parto per il Sudan, voglio donare la stessa gioia che voi avete dato a me, ai bambini africani”. E partì.

Alain stava portando soccorso ad una donna con l’epatite, quando notò Josef. Lo sguardo di Josef era intenso, potente, capace di catalizzare l’attenzione di chi lo guardava. Alain rimase strabiliato.

Gli porse un po’ di cibo e una scodella d’acqua. Josef allungò le braccia scheletriche, ringraziò e mangiò cercando di nascondere la voglia di ingoiare tutto per chiederne ancora e ancora. Alain si aggirava per il campo profughi e Josef era sempre con lui. Alla mattina quando Alain faceva ritorno al campo, Josef si faceva trovare sveglio e pronto ad aiutarlo. Così cominciò un’amicizia fatta di sguardi, di sorrisi e di silenzi. Alla sera Josef andava a dormire nei tombini e alla mattina, con impazienza, attendeva l’arrivo del suo nuovo amico.

Per la prima volta, Josef, si sentiva utile, considerato, gli veniva riconosciuta, finalmente, una sua identità.

Il tempo passò, e a venticinque anni Josef non somigliava più allo Josef dei tombini; era un uomo, ormai, con il suo carico di responsabilità che Alain gli aveva dato, aiutare chiunque e comunque.

Josef riuscì a studiare e desiderò dare a tutti coloro che avessero voluto, quell’istruzione tanto utile per dimenticare l’ignoranza e per capire, finalmente, con la propria testa, ciò che era giusto e ciò che era sbagliato.

In una baracca costruita con l’aiuto di tutti e una lavagna rimediata con gli aiuti umanitari, Josef donava cultura.

Una volta alla settimana, andavano tutti al mare, in quel lembo di Mar Rosso, dove subacquei di tutto il mondo affittavano barche per crociere senza attracco alla terra ferma (troppo pericoloso) per immersioni fantastiche in un mare incontaminato.

Josef ricorda ancora quell’incontro magico con la natura e rivive quelle stesse emozioni negli sguardi di felicità dei suoi amici sudanesi.

Mani e braccia che si muovono, disarticolati dal corpo, grida di giubilo, e il tuffo, con la fusione della felicità delle persone con l’acqua.

Scene di gioia, forse isteriche, poi gli schizzi, le corse, le cadute, gli abbracci, il fiatone, ma non c’è tempo per la stanchezza, e di nuovo le corse, le urla, la felicità.

Con un po’ di commozione, Josef e Alain, guardano quella rappresentazione di vita vera e sentono come ogni momento positivo dato a quelle persone, sia uno stimolo sempre maggiore per accrescere quella forza interiore per continuare ad andare avanti.

Quell’energia particolare che fa superare le barriere pensate impossibili da scavalcare e così anche quando Alain se ne andò per una malattia e Josef gli tenne la mano fino a quando il traghettatore non lo venne a prendere, la voglia e la speranza non abbandonò mai Josef, di amare, con il cuore, gli altri.    

Non consentire

OK

Questo sito web non fa uso di cookies ma potrebbero essere usati dai collegamenti esterni.