Il simbolo di Claudio Tonelli

IL SITO DI CLAUDIO TONELLI

GIO’


- Dai Giò, raccontami una storia.

- Non adesso.

- Dai, dai Giò, raccontami una storia.

- Non posso, ho da fare.

- Ti prego Giò, per favore.

- Quando ti metti di impegno sei proprio uno che rompe, lo sai questo?

- Si, Giò lo so, ma ho bisogno di un tuo racconto.

- Senti, la mia storia non cambierà il tuo destino e non modificherà quello che è stato deciso. Perchè dovrei accontentarti. E’ meglio che stai tranquillo, ti metti buono e attendi la tua fine. Anzi perchè non te la racconti da solo una storia, così ti tieni compagnia e il tempo ti passa prima.

- Giò, per favore, io non riesco a concentrarmi, ho bisogno di ascoltare. Ho bisogno di chiudere gli occhi e sentire la tua voce, le tue parole mi entrano lentamente e danno ossigeno al mio corpo, mi permettono di sognare e di fantasticare.

-Sai Giò, io sogno solo quando ti ascolto. Da quando sono qui ho passato tutte le notti senza mai sognare. La mia vita risorge durante il giorno in attesa delle tue parole, aspettando con ansia e pazienza il momento nel quale noi due siamo vicini e tu inizi a raccontare.

-Dopo qualche minuto io mi calmo, le pulsazioni rallentano e entro nella tua storia, la vivo come se fossi il protagonista, intensamente e con passione e mi vedo, là, in mezzo ai tuoi personaggi e con loro do vita alla fantasia.

- Giò io sto bene con i tuoi racconti.

I nostri occhi per un momento si incrociano e non posso fare a meno di vedere la sua sincerità, paragonabile a quella di un bambino, così disarmante, così pura. Perchè non dovrei farlo felice? In fin dei conti mi chiede solo una storia. Quante sono le persone che si accontentano di essere felici per così poco? Eppoi le nostre storie non sono come le altre. Perchè io inizio e il racconto prende forma attraverso la collaborazione anche di Al, lo facciamo insieme il racconto, ecco perchè si sente così eccitato e voglioso di iniziare. Per pochi minuti, solo per pochi minuti, lui si sente protagonista. Protagonista in una vita che non gli ha mai dato niente di buono. E solo la fantasia gli ha permesso di non soccombere.

Si, Al, ti racconterò qualcosa, ti renderò felice ancora una volta, un’ultima volta.

- Al, ti ricordi di Frank? Quel bellimbusto pieno di sè che ogni sera veniva al bar a raccontar le smargiassate?

- Chi, quello che era andato in Patagonia a piedi in soli venti giorni?

- Proprio lui! Ho sentito che è tornato oggi, da dove non lo so, ma domani verrà al solito posto per raccontare la sua ultima avventura.

- Penso proprio che dovremo andarci.

- Si, Al, lo penso anch’io.

Sono le cinque del pomeriggio e il dio del tuono, il dio del vento, il dio della tempesta e non so quali altri dei, si sono radunati sulla nostra città e ci stanno dando esempio della loro presenza, caso mai ce ne fossimo dimenticati, al seguito di una bella estate calda e soleggiata.

Una vera tempesta si stava abbattendo su di noi, i fulmini facevano a gara su quanti alberi avrebbero incenerito in meno tempo, la pioggia cercava di ingrossare il vicino fiume per farlo tracimare, e il vento si stava potenziando per scoperchiare più case possibili.

Un inferno.

- Al ti ricordi che sia mai venuto un temporale così?

- No Giò, è terrificante.

Non saremmo potuti andare all’appuntamento con lo smargiasso e in noi cresceva l’apprensione per ciò che stava accadendo. Fuori c’era il finimondo.

Il tempo era nero e le nuvole sembravano così basse da poterle toccare.

- Giò, vedi anche tu in lontananza?

- Vedo un’ombra, non riesco a capire, ma....

- Ma è Mary! –Urlammo il suo nome con vigore e disperazione. Mary è una bimba di sei anni e cosa ci faceva in mezzo alla tempesta? Camminava lentamente con una mano sugli occhi e con l’altra cercava sicurezza appoggiandosi ai muri delle case.

Al non ci pensò un attimo, uscì di casa e andò verso la piccola. Correva a zig zag cercando di evitare le pozzanghere appoggiando bene la pianta del piede per non incorrere in dolorose storte che avrebbero compromesso il suo aiuto alla bambina. Al era fatto così, se c’era da fare del bene non si faceva pregare ed era sempre in prima linea, sembrava la sua missione.

Io ero rimasto sulla porta di casa e seguivo senza battere ciglio Al che si avvicinava sempre di più alla piccola Mary, quando la mia attenzione fu attratta da un rumore sordo, continuo e molto forte. Guardai alla mia sinistra e con orrore vidi una massa scura che si avvicinava con una velocità pazzesca.

- Al – gridai – prendi la bambina e sali sulla scala che porta al terrazzo, il fiume ha rotto gli argini -.

Al non mi sentiva, non mi poteva sentire, c’era troppo fracasso, nonostante urlassi con tutta la forza che avevo in corpo, la mia voce non gli giungeva.

Anche dieci anni fa il fiume tracimò seminando terrore tra gli abitanti e da allora furono promessi grandi lavori per rinforzare le strutture fatiscenti, “perchè questa tragedia non abbia più a verificarsi e i cittadini vivano una vita felice e serena”, così echeggiavano le parole dei politici che si prodigavano nel loro sostegno. Ma eravamo in campagna elettorale e così, dopo le elezioni, non si fece più niente.

Uscì di casa e corsi urlando, implorando Al di mettersi in salvo con la bambina, poi mi arrampicai sul palo della luce che faceva angolo con la via che portava alla chiesa.

L’ondata colma di fango e detriti invase le vie con inaudita violenza fracassandosi contro le case per poi seguire il tracciato segnato dalle strade inghiottendo tutto ciò che trovava sul suo cammino.

Cercavo disperatamente Al ma non riuscivo a vederlo. Gli occhi mi bruciavano ma continuavo a sperare in qualche segno di vita. E infine eccolo là a testa in giù con le gambe avvinghiate alla ringhiera di una terrazzo e le braccia che reggevano Mary contro la furie delle acque. Al non l’avrebbe mai lasciata, piuttosto sarebbe morto con lei. Poi un’ondata più alta e forte delle altre mi strappò dal mio sostegno di vita e fui catapultato in un’orda puzzolente e sporca.

Tenevo la testa all’indietro per respirare, sbandavo e urtavo oggetti non identificati, non sentivo più le gambe, cercavo di aggrapparmi a tutto ciò che mi veniva incontro ma inutilmente. Poi una forza sconosciuta mi trascinò in basso, la poca luce diventò il buio, istintivamente serrai la bocca per non ingoiare l’acqua putrida. Attimi di panico, non riuscivo a respirare, il battito del cuore si faceva sempre più forte, il diaframma pulsava, sentivo le voci che mi sussurravano “respira, respira” che si facevano sempre più deboli, le forze mi stavano abbandonando, non pensavo più, desideravo solo morire. Tossì forte, sputando materia grigiastra, un odore nauseabondo usciva dalla mia bocca. Ero disteso su un fianco e il cemento freddo e gelido era diventato il mio  migliore amico. Una manina mi accarezzava i capelli e mi sussurrava dolci parole. Accovacciato ai miei piedi c’era Al che mi guardava compiaciuto. Aveva salvato la mia vita e quella di Mary.

Dissi solo “grazie” e mi addormentai stremato.    

- Ehi Giò, sono stato bravo in questa storia?

- Direi proprio di si. Mi hai salvato la vita.

- Allora non sono così cattivo, vero Giò? Anch’io so essere buono.

- Si Al, tu sei una buona persona e sei molto bravo.

Al abbassò il capo e rise. Rise per la gioia di sentirsi una persona normale, di avere trovato affetto e gratitudine in una storia, di vivere per pochi momenti, ciò che avrebbe voluto dalla vita.

Lo guardai con compassione e anche se non potevo dimenticare il male che aveva fatto ad altre persone, un senso di vuoto riempì il mio corpo.

Al, se fosse vissuto diversamente, forse non avrebbe commesso il male che ha poi fatto. Se la sua famiglia fosse stata un’altra famiglia, Al avrebbe avuto l’onore della vita come tutti si meritano.

Il ghetto, i soprusi e la disperazione rendono belve anche gli esseri più innocui: si risponde alla legge della natura, vivere o morire. E tutte le tue lotte che ti dovevano portare a vivere per sopravvivere, sono risultate inutili.

Tu caro Al, a tua insaputa, hai scelto di morire.

La cella si apre, i due carcerieri entrano e sembrano enormi dietro quelle divise. Al li guarda e si alza, si mette a posto la camicia, si allaccia i polsini, si sistema i capelli.

Esce dalla cella, mi guarda. Qualcuno grida “dead man walking”.

Gli tocco il braccio e gli dico – Ciao Al, amico mio. A presto.

- Ciao Padre Giò, a presto.

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